martedì 23 febbraio 2016

A.R.
Artsteady reviews

DEADPOOL IL FILM


Avevo tutte le migliori intenzioni, lo giuro.
Mi ero preparato una serissima scaletta con la quale fare le pulci a questa prima volta di Deadpool sul grande schermo, ma il film non la merita. Sarebbe un trattamento iniquo.

Alcune premesse:
- Sono andato a vedere Deadpool al cinema il giorno 18 febbraio, data di uscita italiana, per nulla vergine, essendomi fatto divorare completamente dal marketing virale. Ho visto tutti i trailer, originali ed italiani, le clip, i manifesti, le interviste a Ryan Reynolds, l'ecografia prenatale del regista.
- Sono andato al cinema alle 21.30, dopo aver guardato Villareal – Napoli, partita di andata dei sedicesimi di Europa League, in un pub nei pressi del cinema.
- La recensione conterrà spoiler sul film, la partita, il panino e la 26^ giornata del campionato di serie A.

Si abbassano le luci in sala e partono i titoli di testa. E credo che siano stati i tre minuti più fomentanti della mia vita. Sono sufficientemente certo che sia una reazione realistica e non falsata da preconcetti e condizioni ambientali: il panino era tristemente accompagnato da una Coca Cola ed il Napoli aveva perso 1 a 0 con gol di Suarez nel finale su punizione, nel più classico dei siringoni, come direbbero in Spagna. Ero quindi schifosamente sobrio, un po' abbattuto e se chiudevo gli occhi mi appariva lo sguardo da triglia di Valdifiori (ma come si fa, dico io!).
Voglio personalmente ringraziare i titoli di testa per avermi riportato nel mood giusto per la visione del film: una trovata originale, divertente e veramente ben realizzata quella di presentare i titoli muovendosi nel fermo immagine di una delle scene d'azione più spettacolari della pellicola. Ho successivamente scoperto che Tim Miller è un esperto di “opening” e devo dire che il mestiere si vede tutto.
Sebbene le battutine fossero fessacchiotte, al termine dei titoli di testa già sorridevo.

La trama è esile e non disdegna di lasciare qua e là pure qualche buco. D'altronde con un Hamsik in quelle condizioni, capace di sbagliare quasi tutto nel secondo tempo, il gioco doveva passare necessariamente per i piedi di Valdifiori, che però tocca più avversari che palloni.
Solo un po' meglio riesce a fare il film, alle prese con il sempre difficile compito di rendere interessante una storia d'origini. Più interessante della trama in sé è certamente il modo in cui è gestita la narrazione, con un gioco di flashback ben strutturato che detta i ritmi giusti, senza mai annoiare.

La tecnica del regista è sorprendente (e ormai sarà chiaro che NON stiamo parlando di Valdifiori). Era difficile prevedere da questo punto di vista cosa ci aspettasse in sala, essendo di fatto l'opera prima di Tim Miller alla regia solitaria, per cui la sorpresa era messa in conto. Miller non si limita mai ad una regia “operaia”, cercando sempre il guizzo, la trovata giusta per valorizzare la spettacolarità o la comicità della scena e ci riesce molto spesso sia per le scene d'azione (soprattutto nella lunghissima sequenza del ponte), sia nelle parti più dialogiche. Nota di merito per il modo in cui viene presentato l'innamoramento tra Wade e Venessa: al di là dell'idea in sé di seguire la storia d'amore in un montaggio veloce di scene di sesso, il modo in cui il regista dosa romanticismo, comicità e nudo integrale è veramente pregevole.
Nonostante ciò, il film perde un po' di smalto nel finale, da un lato perché l'ultima scazzottata è un po' tirata via, dall'altro perché il meccanismo comico, negli ultimi dieci minuti, comincia a risultare un po' scontato.

Lascia comunque un buon sapore in bocca. La scelta del fiordilatte di Agerola nel panino, di cui mi prendo tutti i meriti, contribuisce ad aggiungere un retrogusto delicato ad una pellicola che di delicato non ha assolutamente nulla. Per la gioia di tutti.
Il film si presenta assolutamente sopra le righe, ed è un atteggiamento che con stoica e pregevole costanza riesce a sostenere per tutta la durata. In questo essere completamente esagerato in tutto, le incertezze di trama e qualche cafonata di regia vengono risucchiate, masticate e vomitate in un unico, lungo conato di puro intrattenimento ricco di pezzettoni.

Avendolo purtroppo visto in doppiaggio italiano, poco potrei dire dell'interpretazione di Ryan Reynolds, che per lunghi tratti indossa la maschera di Deadpool. E invece dirò.
La mimica dell'attore rasenta la perfezione e riesce perfettamente ad apparire come un personaggio di un cartone animato scagliato in una realtà che diventa cartone animato anch'essa (anche fuor di metafora). Ryan Raeynolds è inequivocabilmente Wade Wilson, mercenario violento, sboccato e fottutamente pazzo, e lo è in un modo così naturale da rendere paradossalmente credibile tutto ciò che accade sullo schermo. Meno riuscita è la caratterizzazione degli altri personaggi, completamente schiacciati dal protagonismo di un attore innamorato del suo personaggio e di un personaggio innamorato della propria voce: Ajax, Testata Mutante Negasonica e soprattutto Colosso ne escono come delle macchiette in quel grande film che sta prima di tutto nella testa di Deadpool.

Lo sfondamento della quarta parete, la vera cifra del Mercenario Chiacchierone, è gestita... no, non è gestita. Deadpool sta lì, sullo schermo, fa le sue robe, e parla incessantemente: con gli altri, con sé, con te, con gli unicorni di peluche ed è straordinariamente divertente perché lo fa da nerd a nerd, citando continuamente il cinema, la televisione, il pop e qualunque altra cosa mi sia perso. Tutto è così fitto che, dopo aver riso per la prima mezz'ora, più o meno quando si taglia la mano citando 127 ore, ti si stampa un sorriso ebete sulla faccia di quelli che ti porti a letto.

Resta soprattutto una gigantesca dichiarazione d'amore: in ogni fotogramma si vede quanto questo film sia stato estremamente voluto e amato da Miller e soprattutto Reynolds, che hanno dovuto sostanzialmente costringere la Fox a produrlo e si portano a casa la soddisfazione di aver dato a tutti quello che si aspettassero ed aver fatto pure un gran bel film, che è sempre un valore aggiunto.
Tornano a casa con un incasso record che vale i tre punti, una piccola gioia in una settimana in cui il Napoli pare aver dimenticato come si fa, bucando il controsorpasso sulla Juve nel match di casa contro il Milan.
Sto ancora finendo di sfondare la quarta parete della mia camera.

Cosa resterà al genere Cinecomics di questo esperimento così ben riuscito? I bookmakers si dividono tra il “molto poco” e il “mezza cippa di cazzo”. Personalmente, propendo per la seconda: questo film non dimostra che il supereroe VM18 funziona, ma solo che Deadpool è un personaggio che sul grande schermo sa leggere, scrivere e far di conto. Il primo Kick Ass dovrebbe essere un valido esempio.

Deadpool è così esagerato e talmente compiaciuto dall'esserlo che ti brucia le sinapsi.
Per buttare giù questo paio di paginette semi serie ho dovuto far passare dei giorni da quando l'ho visto.
E sono certo che, da domani, quando mi chiederanno “Com'è?”, tornerò a rispondere solo “Bello. Bellissimo.”.
E la partita? Allora volete proprio infierire!

(ultima, che non sapevo dove mettere: film del genere ridimensionano abbondantemente “I Gabbiani della Galassia”, perché fa ridere di più, ha meno problemi e soprattutto se ne crea meno.)

(ultima, ultima: nudi integrali di questo livello molti film di genere se li sognano. Di genere porno.)


martedì 16 febbraio 2016


A.R.
Artsteady reviews

Planet Hulk




Ma adesso basta parlare di Hulk, parliamo di me.

Ciao, sono un ventiseienne magrolino che porta a spasso un improbabile cespuglio sulla testa. Dieci anni fa, in un'altra era geologica, ero un sedicenne grassottello che portava a spasso un improbabile paio di baffetti. Nel mio personale vissuto economico, i sedici anni rappresentano uno dei periodi più floridi che abbia mai vissuto: avevo una dignitosa paghetta mensile che poteva essere spesa completamente in fumetti, al netto delle pizze del sabato sera.
Prima di cominciare a fumare, c'avevo il PIL della Svizzera.

In quel tempo, Incredible Hulk viveva un periodo piuttosto buio e a me, che non avevo assistito ai periodi di sfavillante splendore precedenti, faceva discretamente cacare. Tuttavia, in Italia veniva pubblicato su Devil & Hulk ed io, che avendone la possibilità compravo qualunque albo la Panini, in combutta con la mia fumetteria, infilasse nella mia casella, non me lo facevo scappare. Per amor di polemica, aggiungerò che adoravo il ciclo di Daredevil della premiata ditta Bendis-Maleev, sicché...
Chi era Greg Pak per me? Quello che aveva scritto Phoenix: Endsong, una storiella tutto sommato simpatica, disegnata da un Greg Land che ancora non aveva avuto modo di venirmi a noia.
Chi era Pagulayan per me? Proprio nessuno.
Dire che non mi aspettassi nulla da questo Planet Hulk, ormai sarà chiaro, sarebbe pure troppo.

Cazzo se mi sbagliavo! Nel giro di poco più di un anno, Pak e Pagulayan (e Lopresti, Frank e il resto della lista dei disegnatori che Mamma Marvel teneva sotto contratto così, per uno sfizio suo) mi hanno regalato un'opera di quelle che ti fanno ricordare perché spendi tempo e denaro nel fumetto seriale: perché quando sei fortunato, ti capitano storie del genere.
Poi gli anni sono passati, i baffi li ho perduti, ho letto le grandi saghe del Gigante di Giada e ho potuto mettere questa storia accanto alle altre, ed apprezzarne l'unicità. Pak riesce a destreggiarsi egregiamente tra le tematiche intimiste che sono sempre state alla base delle migliori opere del Nostro ingombrante protagonista, rivisitandole in modo del tutto personale, ma soprattutto contestualizzandole in una riflessione ben più ampia, strattonata tra politica, religione e individuo.

Nel prosieguo, farò degli spoiler. Trattandosi di una storia di dieci anni fa, credo di non far torto a nessuno, purtuttavia se non lo avete mai letto e desiderate restare vergini, fermatevi qui: spero di avervi convinto a farlo. Se lo avete letto, non avete nulla da temere. Se non lo avete letto e non ve ne frega un cazzo degli spoiler... beh, siete quelli che preferisco.

Sai Greg, House of M è andato molto bene e stiamo pensando di fare qualcosa di ancora più epocale per la prossima estate. Abbiamo bisogno di te. Ce l'hai presente Hulk? Ce lo devi togliere dalle palle per un annetto.” Avrete riconosciuto la parlata colorita di Joe Quesada mentre informa Pak che lui, la Guerra Civile, l'avrebbe vista giusto col binocolo.
L'incipit è semplice: gli Illuminati vogliono finalmente liberarsi di Hulk, lo mettono sopra un razzo in rotta verso un pianeta desolato, ma qualcosa va storto e il Gigante di Giada finisce su un pianeta abitato, Sakaar. La popolazione di Sakaar si divide in tre razze principali, che corrispondono a classi sociali nettamente separate in uno scenario politico che ricalca molto da vicino l'Impero Romano: i sakaar, nobili umanoidi rossi , il popolo ombra, la razza grigia dei sacerdoti e i nativi, insettoidi schiavi. Come in ogni Impero Tipo- Romano che si rispetti, grande spazio è dato ai giochi tra i gladiatori, principalmente criminali, reclusi politici e alieni dispersi finiti per caso sul pianeta. E quindi, Hulk. Qui Hulk fa la conoscenza di quelli che diventeranno poi i suoi fratelli di guerra: il nativo Miek, i sakaar Elloe e Lavin, il guerriero ombra Hiroim, l'alieno roccioso Korg e un membro della Covata. Insieme daranno vita alla rivoluzione contro l'Imperatore Rosso, una rivoluzione che passa dalla religione, da una solidarietà da costruire e (ovviamente) da grandi battaglie.

La grande idea di Pak è quella di escludere Bruce Banner dall'equazione: su Sakaar non c'è spazio per il debole umano, ma soprattutto non c'è spazio per il suo sistema morale. Il nostro novello Spartaco delle taglie forti, infatti, è chiamato prima di tutto a costruire un proprio sistema morale, qualcosa che gli permetta di comprendere quali battaglie combattere, quali nemici affrontare e quali alleati scegliere. È un processo dinamico, nel quale Hulk viene affiancato dai suoi fratelli di guerra, ma che sostanzialmente deve rielaborare e gestire da solo. E' una morale rivoluzionaria, tesa a sovvertire l'ordine costituito e, soprattutto, ad unire i popoli affinché la battaglia non sia contro il nemico, ma per gli amici. Per portare a compimento questo processo, Hulk dovrà demolire l'idea che ha di sé stesso come distruttore, come mostro e, nel farlo, troverà la dimensione tutta nuova non dell'eroe, ma del leader politico.

Hulk fa la morale e la incarna, ma con quale autorità? Dapprima la conquista con la rabbia, la forza bruta, come chiunque si aspetterebbe. Successivamente però tale autorità gli viene semplicemente concessa dagli altri, che in lui vedono un modello, anzi di più: un messia. E questo è uno dei punti più alti probabilmente di Planet Hulk, perché dietro ogni grande religione si cela un grande progetto politico, un progetto che, quando si incarna in un sol uomo non può che renderlo un'emanazione di dio in terra Sakaar. Che lui sia o meno l'eletto di cui parla la (solita) profezia importa poco (importa nulla, per lui), importa il progetto e l'investitura.
Un personaggio fondamentale in questo processo di responsabilizzazione è il nativo Miek, per caratterizzazione assolutamente il miglio personaggio della run insieme ad Hulk. La storia di Miek si incrocia con quella dello Sfregio Verde che è ancora un bambino orfano, che necessita di una figura paterna surrogata che vede in Hulk, e da lui si abbevera per soddisfare la sua sete di precetti di crescita. Nello gestire la rabbia di Miek, Hulk deve di fatto imparare a gestire la propria rabbia e come Hulk prende in carico le sorti di Sakaar, Miek dovrà prendere in carico le sorti del proprio popolo.

La rivoluzione procede per grandi battaglie, che poi sono grandi mazzate. Le città vengono espugnate e le alleanze vengono strette a cazzotti sul muso e Greg Pak riesce a rendere il tutto estremamente credibile, coadiuvato da disegnatori estremamente a loro agio con i ritmi serratissimi imposti alla narrazione. Soprattutto Pagulayan si dimostra disegnatore di livello, con un tratto sporco e al contempo deciso, in grado di restituire smalto ad uno scontro dei più classici in casa Marvel, quello tra Silver Surfer e Planet Hulk. È un momento decisivo della storia, nel quale i gladiatori si liberano del controllo diretto dell'Impero e cominciano la loro marcia di libertà. E' soprattutto uno scontro che viene spogliato di ogni solennità, è violento e selvaggio perché su Sakaar, prima di Hulk, nulla poteva essere differente. Ogni singola tavola rappresentante la rivoluzione è un'esplosione apocalittica di azione rabbiosa, fino all'ultimo atto.

Quando la rivoluzione finisce, con la morte dell'Imperatore Rosso, Hulk alle sue spalle non ha lasciato solo macerie, ma una rete di rapporti e di alleanze costruite sulla base della lealtà in battaglia e della cessione di piccole istanze personali, da valorizzare in un progetto di comunità. La gestione del processo di pace ci restituisce un Golia Verde del tutto nuovo, completamente a suo agio nel nuovo ruolo di reggente di un impero che non conosce più la mostruosità, perché dai mostri è stata fondata. Riuscirà finalmente a trovare la realizzazione personale, un amore sincero e una speranza per il futuro. Un futuro che gli sarà negato dalla malvagità degli uomini.

In Planet Hulk c'è Hulk e un pianeta, ed è la storia di come il pianeta plasma Hulk ed Hulk lo riplasma a sua immagine. Hulk non sarà mai più lo stesso, perché porterà quel pianeta nel cuore, o almeno così sarebbe dovuto essere.

Il seguito ufficiale sarebbe World War Hulk, ma non vi fidate: è una baracconata di botte da orbi in cui questo fantastico Hulk lascia il passo troppo presto alla sua controfigura peggiore.

giovedì 11 febbraio 2016

A.R. Artsteady reviews: Dylan Dog color fest N°16 , Tre passi nel delirio



Questa che si prospetta sarà una recensione di parte.Gli artisti di questo ultimo color fest di Dylan Dog, a partire dal copertinista Arturo Lauria, per poi arrivare agli stessi autori delle storie, son tutta gente che,  senza mezzi termini, ADORO!

Francesco Ciampi in arte Ausonia
 Ha realizzato uno dei fumetti autoriali italiani più belli che abbia mai letto negli utlimi anni (stiamo parlando di "ABC" della "Coconino press").
Già questo mi basta.

Marco Galli anche detto Kazzemberg
E' un artista che ammiro tantissimo e le cui ultime due pubblicazioni sono veramente cibo per la mente per quel che mi riguarda.
(stiamo parlando di "Oceania Boulevard" e "Nella camera del cuore si nasconde un elefante" sempre della Coconino)

Gabriele di Benedetto in arte Aka B 
Dire che sia solo un fumettista è riduttivo. Ha spaziato oltre che col fumetto ("Le 5 fasi" ad esempio,"Edizioni BD"),
con la scrittura ("Come un piccolo olocausto", "Logos edizioni"), con l'illustrazione (Monarch) e con il cinema (Mattatoio).
E' insomma un artista a tutto tondo.
Un inarrestabile fiume in piena.

Vedere questi tre insieme, in un unico albo e vedere l'albo direttamente in edicola è per me motivo di gioia e contentezza.
Potrei quasi pensare addirittura che questo numero del color fest non sia stato fatto per rinnovare e snellire il personaggio di Dylan come in molti giustamente stanno dicendo.
No! potrei quasi asserire che questo fumetto sembra essere fatto apposta per me!
Che finalmente, dopo duecento anni dall'ultima volta, posso dire che sia uscita della roba italiana da edicola che, in quanto lettore (e non da addetto ai lavori) approvo in toto.
Senza quel:

"Si è fatto bene...però...(inserire qui critica a caso)".

Ma veniamo al dunque e analizziamo le singole storie.


"Sir Bone - abiti su misura" di Ausonia

Ausonia si muove in maniera del tutto disinvolta tra le pagine del nostro indagatore dell'incubo, complice il fatto ch'egli, oltre ad essere un magistrale disegnatore, può anche vantare una
certa confidenza col materiale trattato fatto di macellazioni e carni putride (si veda ad esempio Pinocchio dello stesso autore).
Il tutto è accompagnato da un tratto che sa essere poetico e fiabesco al contempo, creando un gioco di contrasti con il soggetto trattato che rende il tutto ancora più lugubre.
Una cosa che mi ha colpito è che la storia si potrebbe benissimo incastrare nell'universo narrativo di Dylan Dog canonico (intendo proprio la serie regolare) e uscirne di gran lusso.
Un occhio più malizioso può leggere all'interno della storia anche una sottintesa ridicolizazzione verso la serialità della testata stessa (si parla di come vengono fabbricati gli abiti sempre uguali di Dylan per farvi capire).
Vista in senso più ampio questa dissacrazione è rivolta sopratutto verso la società industrializzata e verso il consumismo e il conseguente sfruttamento umano e disumano (rappresentato egregiamente da delle "povere" capre demoniache lavoratrici) e quindi verso la serialità e l'omologazione in generale.
Ovviamente la critica interna è portata avanti con immenso rispetto del personaggio e tende più ad esaltarlo che a caricaturizzarlo o a renderlo ridicolo.
Gli dà un senso, senza stravolgerne l'universo narrativo ed è per questo che per me potrebbe benissimo incastrarsi nella serie regolare.
Verso la fine si raggiunge quello che secondo me è il picco narrativo.
Senza spoilerare nulla vi dico solo che i personaggi principali della storia ad un certo punto si mettono a nudo con poche parole, pochi gesti e una maestosa gestione della "telecamera", si ha un salto quantico emozionale che mi ha ricordato perchè adoro così tanto Ausonia.




"Gick Grick" di Marco Galli
Questa è la storia che, a partire già dal titolo, più mi riuscirebbe facile racchiudere in un solo aggettivo: "Disturbante!"
Il pretesto è semplice:

Un demone si ritrova all'improvviso in casa di Dylan ed arreca disturbo.

Un disturbo che scaturisce dalle pagine di carta per penetrare nelle orecchie del lettore e fargli venire quei brividi che solo un'unghia graffiata su una lavagna può dare.
Una roba che a leggerla coinvolge in prima persona.
A me è bastato solo questo.
La regia di Marco Galli è ineccepibile, cinematografica (e mi aveva già abituato a questo col suo Ocenaia Boulevard), riesce veramente a trascinare il lettore in una situazione che mette in tensione, arreca fastidio, mette inquietudine.
Galli ha colto il cuore dell'horror e questo basta!
Non ho trovato, nè cercato, significati profondi in ciò che ha voluto raccontarci e forse non sembra neanche averne pretesa, almeno ad una prima lettura.
Degno di nota il coraggio che ha avuto nella rappresentazione grafica di Dylan, bruttino, (non bello e affascinante come noi siamo abituati a vederlo).
Forse dietro c'è l'intenzione di ridimensionare il mito del personaggio, sempre puro e impeccabile anche solo nella mera rappresentazione grafica e sempre aggraziato perfino nelle sue fragilità.
Dico "forse" perchè, per quel che ne so, Marco Galli è sempre stato un disegnatore ineccepibilmente bravo a disegnare personaggi brutti, tanto da renderli belli.
Quindi c'è semplicemente Galli e c'è Dylan, le due cose si muovono all'unisono senza che una si sovrapponga all'altra.
Anche qui c'è un piccolo elemento di critica sociale (o per meglio dire critica ai social) che si incastra perfettamente col resto e rende più grottesco il tutto.




"Claustrophobia" di Aka B

Quella di Akab è secondo me la storia più riuscita.
Più riuscita non perchè sia stata fatta meglio rispetto alle altre, ma perchè Akab ha un modo di scrivere che si potrebbe adattare veramente a qualsiasi formato narrativo.
Leggere la storia di Akab è usufruire di un qualcosa che esula dal tempo di narrazione, una roba che potresti arrivare a leggere fino alle duecento pagine o leggerne solo cinque, ne rimarresti comunque soddisfatto.
Il fulcro della narrazione di Akab può racchiudersi in una semplice frase citata all'interno della sua stessa storia:

"Una volta Lord Wells mi disse che noi pensiamo all'infinito come a un periodo temporale molto lungo, ma in verità non è così.L'infinito è assenza di tempo.Piuttosto.E anzichenò."

Questa assenza di tempo,  onnipresente nella storia per l'appunto, ti cala non più in un susseguirsi di eventi ma in una sorta di eterno presente.
Molto probabilmente il grande alleato di questo tipo di narrazione, per niente facile, è il fatto che Akab può vantare una nutrita esperienza pure nel campo dell'autoproduzione.
Cosa che gli ha permesso di forgiarsi e formarsi attorno ad un solido metodo narrativo che gli consente di adattarsi a qualunque tipo di esperimento editoriale.
Mentre le altre due storie, con tutti i loro pregi, possono avere il difetto di risultare troppo corte (stiam pur sempre parlando di 30 pagine a storia), questa di Akab ti soddisfa, ti riempie ed è forse quella che più rileggeresti con piacere in qualità di semplice lettore (e non come magari potrei fare io che da autore rileggo, scandiglio, studio, scompongo e ricompongo volentieri pure le altre storie).

Per farvi capire, il soggetto è veramente quanto di più semplice possa esistere:

Dylan intrappolato in un pozzo, non accade niente!

Solo chi ha una certa maestria nel raccontare può rendere interessanti 30 pagine di fumetto intorno a questo semplicissimo quanto banale spunto.




Nel complesso è scontato dire che questo color fest è da considerarsi anche e sopratutto come un "innovation fest" interno per la casa Bonelli, ma anche per la roba da edicola di produzione italiana
in generale.
Con passi come questi il personaggio di Dylan Dog può veramente risorgere dalla presunta decadenza che tutti i lettori nostalgici di vecchia data lamentano e tornare a poter dire nuove cose.
Con un rinnovamento non solo nei contenuti (che forse in una testata trentennale come DD è impresa quasi impossibile) ma anche e sopratutto offrendo un nuovo impatto visivo e di forma narrativa.
Aprendosi di più ad una certa autorialità che nel fumetto italiano possiamo vantare di avere a iosa, si può dare un po' più di respiro e aria di novità ad una serie che da trent'anni a questa parte, formalmente parlando, non è cambiata molto.
Tutti e tre gli autori hanno dato una visione totalmente differente e personale del personaggio, rimanendo fedeli all'universo narrativo e rispettando quelli che sono i punti cardine di un
personaggio popolare e immutabile come Dylan Dog.
L'unico difetto che posso attribuire al prodotto nel suo complesso è che le storie mi son risultate un pò troppo brevi, so che può risultare una critica stupida, in quanto ormai il formato testata è
quello che è e varia a seconda del numero di autori coinvolti al suo interno, ma più che una reale critica il mio è un invito a volerne ancora.

L'albo costa 4,50€, è un prezzo ottimo (addirittura più basso rispetto ai precedenti color fest), se consideriamo non solo il formato a colori, ma pure i contenuti.
Mi sentirei di consigliarlo anche e sopratutto a chi di Dylan ha letto poco o nulla.
Mi sentirei di consigliarlo perfino a chi, di fumetti in genere, ne ha letti pochi o nulla.
Si perchè, per chi non ha mai masticato fumetti, è un ottimo stimolo, in quanto ci si approccia in un sol colpo al fumetto popolare, a quello autoriale e, ultimo ma non ultimo, al personaggio Dylan.

martedì 9 febbraio 2016

A.R.
Artsteady reviews

NON TI STAVO CERCANDO



Ci sono piccoli tesori che non puoi trovare, devono essere loro a trovare te. “Non ti stavo cercando” è uno di quelli.
Prima opera letteraria di Mauro Uzzeo, stampata inizialmente in sole 150 copie, è stata presentata al Lucca Comics and Games del 2015 allo stand de “Lo Studio in Rosso” (il collettivo che racchiude i grandi nomi del fumetto nostrano). Esaurite le prime copie, ne sono state stampate altre 150 con tre capitoli aggiuntivi scritti dall'autore subito dopo la fiera.
Sono un fortunato possessore di questa opera “aggiornata”, ottenuta quando... non la stavo cercando.

Non è facile dire cos'è questo libro. Dicono i giapponesi che quando non si riesce a descrivere qualcosa allora bisogna andare per sottrazione. Dire quello che non è.
Non ti stavo cercando” non è un fumetto. E va beh, quello è facile da capire.
Non ti stavo cercando” non è un libro sull'amore. Almeno non nel senso classico del termine.
Non ti stavo cercando” non è un libro sui viaggi. Anche se funziona benissimo da guida turistica.
Ma in fondo “Non ti stavo cercando” non è nemmeno un libro.
Anzi, come dice lo stesso autore nella prefazione “è un libro che non esiste” perché è come un segreto. Uno di quei segreti che passano di bocca in bocca sino ad essere conosciuti dal mondo. Un po' come accade con l'amore. Non è possibile nascondere l'amore, come non è possibile nascondere la storia narrata in questo libro.
Ecco la definizione per non ti stavo cercando. Non è un libro SULL' amore, è un libro sulle reazioni all'amore. Quella reazioni quasi ossessive che a volte ci fanno perdere di vista quello che vogliamo davvero.

Ma andiamo con ordine.
Mauro Uzzeo è un narratore a tutto tondo. Dal cinema alla televisione, passando per i videoclip e i fumetti, aveva bisogno solo di mettere i suoi pensieri su carta. Proprio con “Non ti stavo cercando” riempie quell'ultimo vuoto sul suo curriculum di creatore di storie.
Un curriculum di tutto rispetto bisogna dire: cortometraggi animati, serial Tv, cinema, ed ovviamente fumetti tra cui i più ricordati Orfani per la Bonelli e John Doe per l'editoriale Aurea.
Disse una volta Roberto Recchioni, riferendosi a Mauro: “Lui costruisce le cose con amore, ed io le faccio esplodere” ed è vero. Si riesce a leggere in tutta la produzione di Mauro Uzzeo un amore poco sopito, una voglia di fare non frenetica, delicata e dolce, come quella di un cuoco che si appresta a preparare un dolce per il compleanno della figlia.

Non ti stavo cercando” è un diario di viaggio. E' un libro di appunti. Raccoglie al suo interno racconti che Uzzeo ha già pubblicato sul suo blog (http://www.nontistavocercando.it/ appunto) ma che ha saputo collegare tra di loro sapientemente creando una storia lineare e pregna di significato.
Il libro racconta quella strana fase della vita che è l'innamoramento.
Parla di un viaggio improvvisato in Asia a ridosso del capodanno del 2012. Fabrizio Conti è uno scrittore di fumetti, che travolto dalla passione decide di partire con la figlia del suo capo, Alice trascinandola in una rocambolesca avventura ai confini del mondo.
No, sto mentendo. In questo libro non c'è nessuna avventura, se non quella del conoscersi. L'avventura più dura e più pericolosa. Quella dell'innamorarsi.

Ho adorato il libro innanzitutto per la semplicità con cui è scritto. Capitoli corti, diretti, con gli eventi che capitano veloci come baci rubati di nascosto.
Non è un libro facile. E' un libro che scava nelle storie personali di ognuno. Come me, credo che chiunque lo abbia letto abbia riconosciuto qualcosa della propria vita. Perché tutti abbiamo vissuto (o i più fortunati stanno vivendo) quella storia che ci ha fatto soffrire ma con il sorriso. Quella storia che non ha ne capo ne coda, ma che si ostina ad andare avanti perché è la cosa più bella che ci possa capitare.
Se poi non siete persone romantiche potete leggere questo libro come una semplice guida turistica. Mauro descrive con estrema cura tutti quei luoghi da visitare in un viaggio improvvisato tra Thailandia, Laos, Vietnam e Cambogia.

Perché i finali non appartengono alla vita. Sono un'invenzione dell'uomo, che si illude così di potergli sopravvivere

NaA (nota ALL'autore): Le Valentina non baciano mai i Tommaso, purtroppo.

martedì 2 febbraio 2016


A.R.
Artsteady reviews

BATTAGLIA



Adesso un po' di esperienza ce la siamo fatta, un po' di errori ne abbiamo commessi, un po' di belle storie le abbiamo pubblicate. E quindi guardiamo avanti. Questo personaggio ci costringe a pubblicarlo!

Con queste parole, Roberto Recchioni congedava il 2015 editoriale di Pietro Battaglia, primo anno della terza (o quarta, o quinta, si perde facilmente il conto) vita editoriale del personaggio nel parco testate della Editoriale Cosmo. E non possiamo che essere d'accordo con lui, su tutta la linea.
La storia di questo nuovo Battaglia è la storia, certamente, di una apprezzabilissima collana a fumetti, di quelle che l'edicola italiana non vede troppo spesso e a cui invece Editoriale Cosmo comincia ad abituarci.

Il marketing – Premessa: trovo sempre le dinamiche del marketing antipatiche e affascinanti nella loro capacità di connettere il lettore al prodotto scavalcando i contenuti. E pare proprio che ultimamente non si possa ignorare il passaggio di come un fumetto venga venduto, quindi togliamoci 'sto dente.
La notizia del ritorno di Rrobe e Leomacs al timone di una collana sul vampiro siciliano da loro ideato nel '94 viene lanciata con un numero speciale presentato al Lucca Comics and Games 2014 e l'annuncio del formato pocket. L'hashtag #culidabattaglia, che avrebbe dovuto enfatizzare l'attenzione sul formato che poi è quello di Diabolik, ha invece un risultato abbastanza fiacco.
Di certo il colpo gobbo è stato piazzare in copertina i nomi di Recchioni (che non è lo sceneggiatore degli albi) e Leomacs (che non ne è il disegnatore). Certo, non è come se ci trovassimo Kane e Finger sulla copertina di un volume di Batman, Recchioni è comunque al soggetto e Leomacs alle copertine, oltre a tutto il lavoro editoriale di coordinazione dei team artistici, ma dispiace comunque per sceneggiatori e disegnatori che vi hanno lavorato. È una scelta, questa, che sottolinea come il nome di un autore stia pian piano diventando in qualche modo un brand, al quale l'editore attinge appena può sperando che funzioni.

La collana – Quello che ha funzionato senza dubbio è il fumetto, visto che alle quattro uscite previste se n'è aggiunta in corso d'opera una quinta:

1 – La figlia del capo (Monteleone, Des Dorides);
2 – La lunga notte della Repubblica (Gualtieri, Lovelock);
3 – Muro di piombo (Masi, Francini);
4 – Sodoma (Marsiglia, La Bella);
5 – … e le foibe? (Gualtieri, Venturi).

A queste ha fatto seguito una sorta di Omnibus di 752 pagine dedicato al personaggio ed è stata annunciata la continuazione della serie nel 2016.
Nel complesso, questo nuovo Battaglia è decisamente un fumetto di comprimari: le vicende di Pietro si intrecciano, come al solito, alle pieghe più buie della storia d'Italia, che è più che mai fatta di uomini in carne ed ossa, un rivolo di storie personali che affluisce nel fiume della Storia, nelle quali il vampiro si trova ad essere deus ex machina un po' per avidità, un po' per cattiveria, un po' per caso.

Il coraggio – Nessuno si aspetta, da un titolo del genere, un'accurata ricostruzione storica, ma se c'è qualcosa di cui ho sentito la mancanza, durante tutto l'arco della serie, è il coraggio di prendere di petto la tematica affrontata nel singolo volume. Il più delle volte, i giudizi sulle vicende storiche presentate sono messi in bocca a talmente tanti personaggi e con posizioni così variegate che lo scenario che viene fuori resta completamente neutrale e riesce solo in rari casi a scrollarsi di dosso il ruolo di mera ambientazione. Ne è un esempio lampante La lunga notte della Repubblica, che si svolge durante la vicenda del rapimento e poi omicidio, da parte delle Brigate Rosse, di Aldo Moro, nel quale ho trovato a tratti insopportabile il giustapporsi continuo di letture ambivalenti, ma anche Sodoma, che rimanda a Gomorra nel titolo ma offre invece una visione della criminalità organizzata più vicina a quella di una vecchia cinematografia.
Nonostante ciò, di scelte coraggiose disseminate qua e là ce ne sono. Nello stesso Sodoma, coraggioso è stato il così largo uso della lingua napoletana in un albo a distribuzione nazionale, così come l'utilizzo di uno stile grafico assai più pulito ed essenziale rispetto a quello visto su tutti gli altri albi. In … e le foibe? vengono completamente sovvertite le regole del gioco, offrendoci una (claustrofobica) storia squisitamente horror. Più di tutte spicca la caratterizzazione di Edda, la figlia di Mussolini protagonista del primo volume, che lungi dall'essere semplicemente La figlia del capo, si materializza in una figura femminile di straordinaria complessità e modernità.

L'intrattenimento – Una volta fatta la pace con il ruolo della Storia, quello che resta è intrattenimento allo stato puro. Le trame imbastite da Recchioni sono intriganti e avvincenti e vengono calate nel fumetto dallo sceneggiatore di turno con un comune senso del ritmo che trova sempre il giusto equilibrio tra thriller, introspezione e (ovviamente) azione.
Non si può non tornare su La figlia del capo, probabilmente il miglior albo della cinquina, con un Monteleone che ci trascina nella più classica torbida storia d'amore e perdizione, che parte da una festosa e soleggiata Roma, trascinandosi poi nei vicoli sudici e bui di Shangai fino ad una decadente Verona, ben assistito da un sempre più onirico Des Dorides, capace di passare da un Pietro quasi espressionista ad una Edda il cui sviluppo fisico è reso con un realismo quasi morboso. Un albo in cui domina il pathos, fino ad un finale in cui nemmeno la luce del sole riesce a squarciare le tinte fosche che si vanno addensando nell'arco delle 122 pagine.
Menzione d'onore anche per Muro di piombo, una sorta di incrocio tra Die Hard e una versione pulp di 007, in cui il tandem Masi – Francini si destreggia con ritmo incalzante in quello che tecnicamente si definisce “spaccare i culi”.

Gli errori – Tornando alle parole di Recchioni, delle belle storie abbiamo detto. E quindi ci tocca parlare degli errori. Sicuramente fra questi Rrobe può annoverare poco di suo, a parte la confusione già evidenziata in precedenza di cui risente La grande notte della Repubblica, a causa della quale l'albo rappresenta probabilmente il punto più basso di questa “prima stagione”. Nonostante ogni singolo albo non sia perfetto, più che di errori parlerei di rischi calcolati: è evidente che ogni team creativo ha avuto il proprio spazio per provare a sperimentare, soprattutto in costruzione della tavola e gestione degli spazi, ed è pur ovvio che a qualcuno è riuscito più che ad altri (a Marsiglia e La Bella più che a tutti), ma sono rischi che meritano di essere corsi. Non avremmo invece voluto parlare qui delle copertine di Leomacs, e invece proprio ci tocca. L'idea di utilizzare elementi grafici molto stilizzati in cui inserire rappresentazioni più realistiche di scene e personaggi presenti all'interno del volume, di per sé interessante, non viene mai sviluppata al pieno delle possibilità. Il risultato è un “compitino” che certamente non può bastare, soprattutto quando confrontiamo le prime quattro con la cover di … e le foibe?, in cui Leomacs si libera di queste prescrizioni ed esplode nel grido di Pietro, di straordinaria potenza.

Insomma – Tra più alti che bassi, questo Battaglia decisamente funziona e costringe ad essere pubblicato, senza ombra di dubbio. È diretto, è potente ed è divertente ed è tutte queste cose in un modo completamente originale, che è alla Recchioni, ma di volta in volta anche alla Monteleone, alla Masi, alla Gualtieri, ecc. Ma più di ogni altra cosa è alla Battaglia.
Insomma, leggere Battaglia è un'esperienza che ricorda la storia di quel tizio che finisce a letto con una trans si scopre bisessuale: ti delude per quello che cercavi, ti stupisce con qualcosa che non pensavi di volere e alla fine si rivela quello di cui avevi bisogno.